Il rinoceronte di Roatto

Il rinoceronte emerso dal campo di grano

di Laura Nosenzo, racconto tratto dal libro Fossili e Territori. Scoperte straordinarie sulle colline astigiane (*)

 

“Il buco era grande, ma grande” che ancora adesso Secondo Capitolo lo vede precisamente davanti a sé: “Lungo otto, dieci metri, largo sei, profondo più di un metro”.

Allarga le braccia fin che può per dare l’idea del perimetro di terra rimossa che i suoi occhi registrarono, più di trent’anni fa, nel campo di grano di Cascina Melona. Il buco era la tana del rinoceronte (Stephanorhinus jeanvireti), lo scavo per levare dai sedimenti lo scheletro smembrato stretto tra le sabbie e l’argilla, il salvataggio per assicurargli una protezione definitiva nel Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino dove ancora oggi è conservato.

Scorcio del campo di Cascina Melona
Scorcio del campo di Cascina Melona
Dallo scavo emerge il fossile
Dallo scavo emerge il fossile

Era il 1989 e l’aratro dei fratelli Fiorenzo e Francesco Gagliasso, cognati di Secondo, sollevando il terreno si portarono dietro qualche resto di animale preistorico che non si sarebbero aspettati di trovare lì. A chi appartenessero le ossa fossilizzate lo sentirono dire dal paleontologo che ipotizzò la presenza, sotto terra, della carcassa di un rinoceronte.

A distanza di un secolo dalla scoperta di Dusino San Michele, quando un esemplare simile fu estratto nel 1880 mentre si costruiva la ferrovia Torino-Genova, si rinnovava un altro prodigioso ritrovamento. Meno famoso, ancora oggi, il rinoceronte di Roatto rispetto a quello di Dusino, tanto che il sindaco Bruno Colombo sta pensando di raccontarne la storia e ricostruirne la sagoma, nel luogo in cui fu trovato, per esaltare quel fatto raro, la scoperta di un essere primitivo incluso nel catalogo dei grandi vertebrati terrestri, come i mastodonti, che popolarono il Villafranchiano (3,6-1,8 milioni di anni circa).

Qualcosa si seppe, in giro, dopo il ritrovamento dei primi pezzi di ossa nel campo coltivato dei Gagliasso. A Secondo Capitolo i cognati raccontarono che, per qualche domenica, puntualmente sempre alle 13, un uomo compariva per aggirarsi nell’appezzamento pianeggiante. Dice Secondo che i fratelli pensarono a qualcuno che andava per sarset e che, quando le apparizioni continuarono a ripetersi, lo avvicinarono per chiedergli se cercasse la valeriana per farsi l’insalata.

“Ma no – rispose l’anonimo cercatore di fossili – non vado per sarset, ma per ossa”.

“Le mucche e i vitelli morti li seppelliamo da un’altra parte” spiegarono i Gagliasso.

“Io sto cercando un’altra bestia” precisò lo sconosciuto. Poi arrivò il paleontologo e le cose presero il verso giusto.

Quando gli esperti ipotizzarono la presenza del rinoceronte, nel novembre ’90 si decise di provare a rintracciarlo, in prima battuta, ricorrendo al georadar e ai professori del Politecnico di Torino, ma lo strumento si rivelò inutile nell’esplorazione per le interferenze di grosse incrostazioni ferruginose nel sottosuolo. Allora ci si preparò allo scavo. I Gagliasso s’impegnarono a non seminare il grano in modo da rendere libero dalle coltivazioni il terreno, cui si accedeva facilmente dalla strada provinciale Villafranca-Gallareto.

La Soprintendenza Archeologica autorizzò un gruppo di lavoro di ricercatori e studenti affinché la competenza e la voglia di fare costituissero l’esatta combinazione per la ricerca dei resti sepolti.

Venne primavera (’91) e cominciarono i lavori. Agli studiosi si presentarono ossa di diverso colore a una profondità tra il metro e il metro e 20: tra il rosato e il rosso, per effetto degli ossidi di ferro, quelle rimaste per milioni di anni a contatto con le sabbie; tra il bianco e il grigio con macchie nere, per la presenza degli ossidi di manganese, quelle chiuse nell’argilla. Parte dello scheletro, mancante del cranio e della maggior parte del bacino, fu rintracciato con varie rotture e microfratture, alcune ossa deformate dalla pressione dei sedimenti e dal passaggio dei macchinari agricoli. Nello scavo verso Montafia, lontano un centinaio di metri dalla cascina dei Gagliasso, furono recuperati anche i più piccoli frammenti e questo permise successivamente, in laboratorio, di ricostruire le parti maggiormente danneggiate del rinoceronte.

Secondo Capitolo, testimone prezioso con una memoria di ferro
Secondo Capitolo, testimone prezioso con una memoria di ferro
Francesco Scalfari e la ricostruzione del rinoceronte preistorico

“Avviluppavano le ossa e le mettevano dentro alle cassette, ce n’erano una cinquantina il giorno che andai a vedere lo scavo per curiosità” dice Capitolo, classe 1928, rimasto l’unico a rievocare il salvataggio dello Stephanorhinus jeanvireti dopo la morte dei due cognati.

Quelle stesse ossa, Francesco Scalfari le ripuliva nello scavo e poi una volta estratte, prima di essere consolidate sul posto, avvolte in materiali sintetici e deposte negli imballaggi con destinazione il Museo di Torino per essere sottoposte a restauro: “Faceva caldo nel campo – ripensa – Partivamo ogni giorno da Asti intorno alle 8 e lavoravamo tre, quattro ore al mattino e due, tre al pomeriggio”.

Allora era un neo laureato in Scienze Biologiche, futuro antropologo, oggi direttore dell’università astigiana, Uni-Astiss, dedicata a Rita Levi Montalcini: “Il mio era un lavoro di bassa manovalanza, ma essere lì mi emozionava, eravamo impegnati a ridare luce a un essere vissuto milioni di anni prima e mi affascinava pensare che gli stessi ambienti in cui il rinoceronte era vissuto sarebbero poi stati frequentati dai nostri antenati”.

Il giovane partecipò al gruppo di ricerca grazie al docente di Archeologia Preistorica Alberto Mottura (**), che per primo notò i frammenti fossilizzati, aprendo la strada al paleontologo Benedetto Sala e al recupero del vertebrato che, come annotarono gli esperti, si svolse dal 20 marzo al 14 aprile 1991. Esplorando la terra, saltò fuori anche un dente, il terzo premolare superiore di un cinghiale di piccola taglia (Sus minor).

In museo, oltre a riparare e catalogare le singole ossa, gli studiosi compararono i resti a quelli del rinoceronte di Dusino per stabilire se si trattasse della stessa specie: ipotesi poi confermata. Approfondendo alcuni dettagli su punti specifici delle articolazioni, dimostrarono che l’esemplare di Roatto era più piccolo, quindi più giovane, di quello di Dusino e soprattutto poterono descrivere il quinto metacarpo, comunemente non noto agli scienziati e anzi spesso confuso con i sesamoidi, e illustrare per la prima volta altre ossa dello Stephanorhinus jeanvireti, come il trapezio e il trapezoide, non ancora rappresentate in letteratura.

Ad ascoltare tutto questo si compiace oggi Secondo Capitolo: quali rarità ha potuto vedere nel buco di terra, che fortuna essere stato curioso, perché la notizia del ritrovamento delle ossa non appassionò poi tanto i roattesi, “a quelle cose lì non davano retta. Invece a me piaceva la storia del mare che era stato qui”.

Dico a Secondo che andrò a fotografare il campo, non lontano dalla sua casa, e che presto tornerò a trovarlo. Mi aspetterà con le bibite sul tavolo della sala, nella certezza che ogni promessa va mantenuta: “Gli studiosi dissero ai miei cognati che portavano le ossa a Torino e che una volta messe a posto sarebbero venuti a prenderli per fargliele vedere. Ma forse non accadde”.

Però io conosco la strada e tornerò a giugno, il tempo che questi racconti diventino un libro, quando le spighe di grano saranno onde ricamate sulla terra di Cascina Melona.

Grazie a Francesco Scalfari per la foto dello scavo a Cascina Melona.

(*) Edito nel 2022 dalla Casa editrice Araba Fenice con Distretto Paleontologico dell’Astigiano e del Monferrato e Società Paleontologica Italiana.

 

(**) Autore, con Franca Campanino, Maria Gabriella Forno, Daniele Ormezzano e Benedetto Sala,  della memoria in inglese apparsa sul Bollettino del Museo Regionale di Scienze Naturali (1994).