Era il 1989 e l’aratro dei fratelli Fiorenzo e Francesco Gagliasso, cognati di Secondo, sollevando il terreno si portarono dietro qualche resto di animale preistorico che non si sarebbero aspettati di trovare lì. A chi appartenessero le ossa fossilizzate lo sentirono dire dal paleontologo che ipotizzò la presenza, sotto terra, della carcassa di un rinoceronte.
A distanza di un secolo dalla scoperta di Dusino San Michele, quando un esemplare simile fu estratto nel 1880 mentre si costruiva la ferrovia Torino-Genova, si rinnovava un altro prodigioso ritrovamento. Meno famoso, ancora oggi, il rinoceronte di Roatto rispetto a quello di Dusino, tanto che il sindaco Bruno Colombo sta pensando di raccontarne la storia e ricostruirne la sagoma, nel luogo in cui fu trovato, per esaltare quel fatto raro, la scoperta di un essere primitivo incluso nel catalogo dei grandi vertebrati terrestri, come i mastodonti, che popolarono il Villafranchiano (3,6-1,8 milioni di anni circa).
Qualcosa si seppe, in giro, dopo il ritrovamento dei primi pezzi di ossa nel campo coltivato dei Gagliasso. A Secondo Capitolo i cognati raccontarono che, per qualche domenica, puntualmente sempre alle 13, un uomo compariva per aggirarsi nell’appezzamento pianeggiante. Dice Secondo che i fratelli pensarono a qualcuno che andava per sarset e che, quando le apparizioni continuarono a ripetersi, lo avvicinarono per chiedergli se cercasse la valeriana per farsi l’insalata.
“Ma no – rispose l’anonimo cercatore di fossili – non vado per sarset, ma per ossa”.
“Le mucche e i vitelli morti li seppelliamo da un’altra parte” spiegarono i Gagliasso.
“Io sto cercando un’altra bestia” precisò lo sconosciuto. Poi arrivò il paleontologo e le cose presero il verso giusto.
Quando gli esperti ipotizzarono la presenza del rinoceronte, nel novembre ’90 si decise di provare a rintracciarlo, in prima battuta, ricorrendo al georadar e ai professori del Politecnico di Torino, ma lo strumento si rivelò inutile nell’esplorazione per le interferenze di grosse incrostazioni ferruginose nel sottosuolo. Allora ci si preparò allo scavo. I Gagliasso s’impegnarono a non seminare il grano in modo da rendere libero dalle coltivazioni il terreno, cui si accedeva facilmente dalla strada provinciale Villafranca-Gallareto.
La Soprintendenza Archeologica autorizzò un gruppo di lavoro di ricercatori e studenti affinché la competenza e la voglia di fare costituissero l’esatta combinazione per la ricerca dei resti sepolti.
Venne primavera (’91) e cominciarono i lavori. Agli studiosi si presentarono ossa di diverso colore a una profondità tra il metro e il metro e 20: tra il rosato e il rosso, per effetto degli ossidi di ferro, quelle rimaste per milioni di anni a contatto con le sabbie; tra il bianco e il grigio con macchie nere, per la presenza degli ossidi di manganese, quelle chiuse nell’argilla. Parte dello scheletro, mancante del cranio e della maggior parte del bacino, fu rintracciato con varie rotture e microfratture, alcune ossa deformate dalla pressione dei sedimenti e dal passaggio dei macchinari agricoli. Nello scavo verso Montafia, lontano un centinaio di metri dalla cascina dei Gagliasso, furono recuperati anche i più piccoli frammenti e questo permise successivamente, in laboratorio, di ricostruire le parti maggiormente danneggiate del rinoceronte.